DI ELEONORA MONGELLI, VICEPRESIDENTE DELLA FIDU
Egregio Direttore,
Le scrivo a nome della FIDU, Federazione Italiana Diritti Umani, di cui sono vicepresidente, per esprimerle sorpresa e forte preoccupazione nel leggere il servizio di copertina pubblicato oggi su Il Venerdì a firma Mario Calabresi.
Come FIDU abbiamo seguito il drammatico caso della morte di Andrea Rocchelli e di Andrei Mironov e, conseguentemente, il processo che, nel suo primo grado, ha condannato Vitaly Markiv a 24 anni di carcere. Con l’obiettivo di tenere sempre fede al nostro scopo, quello di tutelare e promuovere lo Stato di diritto e i suoi principi cardine, abbiamo, in diverse occasioni, espresso forti dubbi riguardo innumerevoli circostanze poco chiare che avvolgono la vicenda processuale. Abbiamo più volte lanciato un allarme sugli errori grossolani commessi da molte testate giornalistiche in merito alla narrazione dei fatti, errori spesso riconducibili a operazioni di disinformazione originate dalla Russia, permeate nel nostro tessuto informativo e che, di fatto, sono entrate nella prima parte del processo di primo grado, per poi essere state dichiarate “fake” – ma avendo lasciato il segno – nel corso del processo stesso.
Trovo grave che tali errori siano ripetuti in un servizio di punta di una rivista così importante, che vanta migliaia di lettori. Nello specifico, tralasciando le affermazioni tendenziose che ritraggono Vitaly Markiv, secondo la nostra Costituzione innocente fino a sentenza definitiva, come colpevole e quindi come se “giustizia” fosse già fatta, il servizio riporta numerosi errori circa lo scenario storico-politico in cui si sono svolti i fatti, nonché sul ruolo dell’imputato.
Ad esempio, l’autore descrive Markiv come un paramilitare, un ragazzo che da dj si improvvisa soldato in seguito ad azioni di radicalizzazioni online che farebbero mal interpretare il senso di orgoglio e di appartenenza. Vitaly Markiv è invece un soldato della Guardia Nazionale Ucraina, sotto la giurisdizione del Ministero degli Interni, il quale ha fatto la scelta di scendere in campo per difendere il suo Paese d’origine in seguito ad un’aggressione da parte di forze straniere. Inoltre, è bene precisare che la Guardia Nazionale ucraina non ha in dotazione artiglieria pesante, motivo per cui, una volta chiariti questi punti cruciali in sede processuale, è stato necessario cambiare il capo d’imputazione: da autore diretto, Markiv è diventato colui che avrebbe dato istruzioni di sparare.
Sempre nell’inquadramento dei fatti, emerge un altro errore, questa volta nella descrizione delle rivolte dell’EuroMaidan, le quali non nascono “contro Mosca”, com’è riportato nell’articolo, ma come protesta contro il governo ucraino dell’epoca e i suoi atti di corruzione.
È proprio questa distorsione del contesto in cui si sono svolti i fatti, ritrovata non solo su molti organi di stampa ma anche nella sentenza, in cui si confondono addirittura i movimenti dell’EuroMaidan (dell’inverno 2013-2014) con la dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina (del 1991), insieme alla costante omissione del ruolo dei separatisti filo-russi e di agenti russi nel conflitto e all’assenza di una vera e puntuale istruttoria da parte dell’accusa, a preoccuparci e a farci capire come si è voluti arrivati non al colpevole, bensì ad un colpevole.
Sul punto, va dato merito al lavoro di un gruppo di giornalisti indipendenti che, da un anno, insieme a molti esperti, stanno lavorando instancabilmente a questo caso, contribuendo a fare luce sulle sue tante ombre con un documentario dal titolo The Wrong Place che ricostruisce puntualmente i fatti, facendo emergere le lacune, i controsensi e le debolezze dell’istruttoria.
Dal loro lavoro sul campo, presentato al pubblico in diverse occasioni e che invito non solo l’autore del servizio ma chiunque voglia saperne di più a conoscere attraverso le registrazioni sul sito di Radio Radicale, si evince quanto gli indizi presentati durante il processo non portino ad alcuna verità dei fatti. Finora l’unica cosa certa sono gli errori e l’approssimazione con cui questa vicenda troppo spesso è stata trattata.
Mettere in luce tali errori non significa che non si debba andare avanti nella ricerca della verità; al contrario, significa contribuire a far sì che non si aggiungano altre vittime a quelle che già ci sono, significa pretendere vera giustizia per Andrea Rocchelli e Andrei Mironov e per chi, proprio come loro, ha fatto della ricerca della verità il motore del proprio coraggioso lavoro, significa prendere le parti di tutte le vittime di questa vicenda, significa difendere il nostro Stato di diritto e non aspettare che sia la Corte di Strasburgo a doverlo fare per noi.