Di Eleonora Mongelli, 28 febbraio 2020
Siamo ormai abituati a sentir parlare di disinformazione, di fake news, di propaganda. Quello a cui siamo meno abituati è essere consapevoli dei loro effetti sulle nostre vite. Abbiamo avuto l’evidenza delle infiltrazioni elettorali e dell’impatto che alcuni network di disinformazione organizzata hanno sui processi elettorali e sui meccanismi democratici in generale. Siamo rimasti scioccati dalla Brexit e siamo preoccupati per le prossime elezioni. Ma, mentre cerchiamo un modo per denunciare e contrastare questi pericolosissimi fenomeni, il nostro tessuto democratico e le fondamenta dello Stato di diritto vengono smembrati a colpi di informazioni falsate e propagandistiche, spesso senza che ce ne accorgiamo. Quello che ci resta è fare la nostra parte contribuendo, per quanto possibile, allo studio, alla conoscenza, all’analisi dei fatti, per contrastarle. Questa è la ragione per cui crediamo sia doveroso accendere i riflettori e portare l’attenzione dell’opinione pubblica su una vicenda giudiziaria italiana in cui la disinformazione ha fatto da protagonista; una vicenda passata sotto silenzio ma che, forse, proprio per questo dovrebbe preoccuparci di più.
Il 12 luglio 2019, la Corte d’Assise di Pavia ha condannato in primo grado Vitaliy Markiv, cittadino italo-ucraino, a 24 anni di carcere per omicidio volontario del reporter Andrea Rocchelli e dell’attivista politico e oppositore del regime putiniano Andrei Mironov, nonché per il ferimento del giornalista francese William Roguelon. La sentenza viene considerata subito inaspettata e molto severa, sia perché la richiesta del pubblico ministero era di 17 anni di reclusione, sia perché, con ogni evidenza, non si è tenuto conto del contesto in cui Rocchelli e Mironov hanno perso la vita: il sanguinoso conflitto armato del Donbass. La narrazione della guerra nell’Ucraina orientale, filtrata dalla voce del Cremlino, non ci sorprende più. Vedere dipinti i ragazzi ucraini, scesi in piazza durante l’EuroMaidan per difendere i valori democratici, come neonazisti e violenti, rimanda alla tradizione della dezinformatsiya sovietica, adattata alla nuova era digitale. Quello che non credevamo possibile invece era di vedere questa versione del conflitto, impregnata di propaganda, penetrare in un’aula di tribunale nel corso di un processo penale in cui, anziché provare la colpevolezza dell’imputato, ci si è concentrati sull’idea di dover accertare la sua innocenza.
Nonostante Markiv, un soldato regolare della Guardia Nazionale ucraina, si sia sempre dichiarato innocente, non siano mai emerse prove della sua colpevolezza ed il PM abbia ammesso l’infiltrazione nel processo di notizie false (che si poi è deciso di non utilizzare, ma che intanto avevano contribuito a creare un ritratto negativo dell’imputato), la Corte D’Assise ha ritenuto provata oltre ogni ragionevole dubbio la responsabilità penale dell’imputato in un attacco volontario e letale nei confronti dei due giornalisti. Basterebbe dire che si è trattato di un processo puramente indiziario per descrivere questo caso giudiziario come un comune caso di malagiustizia, ma gli elementi che denotano come alcuni pregiudizi ideologici, costruiti con la diffusione di false informazioni, abbiano potuto influenzare la sentenza, ci dicono molto di più sul clima nel quale si è svolto il processo. Tralasciando la confusione, seppure grave, che emerge nella sentenza, precisamente nella descrizione del teatro dell’evento, tra i movimenti dell’EuroMaidan e la dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina, emerge un’interpretazione non proprio corretta del complicato scenario geopolitico della regione, come ad esempio il ruolo della Guardia Nazionale nell’area di Sloviansk, dove si sono svolti i fatti, oppure l’omissione del fatto che entrambi gli schieramenti, ucraini e separatisti erano coinvolti in tiri a fuoco.
Come ben riportato dalla difesa durante il processo e come afferma un documento dell’OSCE (l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), nel periodo in cui si sono svolti i fatti, sia in Crimea che in Ucraina orientale, i canali televisivi ucraini erano stati disattivati dai separatisti e sostituiti con canali di Stato della Federazione Russa, azione che rientra in una chiara strategia di comunicazione. La Guardia Nazionale ucraina a Sloviansk, quindi, era lì appostata per difendere un’antenna televisiva, non per colpire la popolazione civile, come invece si è voluto far credere. Ad evidenziare una serie di altre false informazioni penetrate nel processo, cui hanno fatto eco diverse testate mediatiche, c’è un gruppo di giornalisti italiani e ucraini che, con il documentario inchiesta intitolato The Wrong Place, che FIDU ha deciso di patrocinare, ci riporta sul luogo in cui hanno perso la vita i due giornalisti mostrandoci un quadro accurato e ben diverso da quello esposto dal Tribunale di Pavia. Davanti, quindi, alla consapevolezza di una narrazione erronea dei fatti, è forse legittimo chiedersi se chi ha deciso per la condanna di Markiv si sia trovato nelle condizioni di prendere una decisione libera dai pregiudizi.
Sappiamo bene quanto sia controcorrente esprimere tali dubbi e diventa d’obbligo sottolineare che portare l’attenzione su questo caso non significa non stare dalla parte delle vittime; anzi, pretendere giustizia e verità su quanto accaduto quel tragico 24 maggio 2014 diventa un atto doveroso per chi, proprio come Andrea Rocchelli e Andrei Mironov, ha fatto della ricerca della verità il motore del proprio coraggioso lavoro.
Provare a ristabilire la realtà dei fatti prima del prossimo processo d’appello, ad aprile, significa per noi prendere le parti di tutte le vittime di questa vicenda, difendere il nostro Stato di diritto, l’indipendenza della nostra magistratura e far sì che non sia la Corte di Strasburgo a doverlo fare per noi.