di Eleonora Mongelli, 19 marzo 2018
La corsa dell’America di Trump alla pena di morte sembra non conoscere freni. Da molto tempo assistiamo ormai a deragliamenti della legge causati dai problemi di reperibilità delle sostanze usate per l’iniezione letale, in seguito al rifiuto di molte case farmaceutiche di utilizzare i loro farmaci nelle camere della morte. Infatti, dopo l’addio al Pentothal, molti Stati hanno introdotto nel loro protocollo del cocktail letale un nuovo anestetico, il tanto discusso Midazolam, che avrebbe causato, però, in diversi casi, lunghe agonie e che rappresenta la sostanza oggi più difficile da reperire per i dipartimenti penitenziari, sempre a causa della contrarietà dei produttori a partecipare alle esecuzioni. Questa situazione ha creato un caos giuridico, che va dall’utilizzo di farmaci mai utilizzati prima per le esecuzioni, come accaduto in Florida, all’accelerazione delle esecuzioni a causa della vicina scadenza delle scorte di Midazolam, come in Arkansas, fino a giungere all’assurdo caso dell’Arizona, in cui il protocollo delle esecuzioni è arrivato a prevedere che gli avvocati dei condannati a morte si procurassero il farmaco letale per uccidere i propri assistiti.
Mentre gli abolizionisti di tutto il mondo chiedono una moratoria delle esecuzioni anche per i dubbi di incostituzionalità sollevati nelle procedure di esecuzione, dall’Oklahoma ci arriva la notizia shock dello sviluppo di un nuovo piano di esecuzione alternativo all’iniezione letale: asfissia per inalazione di azoto. Secondo il protocollo, l’inalazione dell’azoto condurrebbe il condannato al sonno, quindi alla morte. Questo in teoria. In realtà, nessuno ha evidenza del suo funzionamento, essendo un metodo usato finora esclusivamente per l’abbattimento degli animali: se confermato, si tratterà di un esperimento su una vita umana.
Quella di non accettare una sospensione delle esecuzioni di fronte al rischio di incostituzionalità dei protocolli in atto non rappresenta l’unica preoccupazione che arriva dagli Stati Uniti. C’è una questione, se possibile, ancora più preoccupante, perché non solo metterebbe a rischio il trend positivo verso l’abolizione universale della pena di morte, a cui assistiamo nonostante la drammaticità dei dati che si continuano a registrare, ma farebbe fare pericolosi passi indietro su diversi fronti. Si tratta dell’infinito dibattito sulla lotta al narcotraffico che, insieme a quello sulla lotta al terrorismo, ha rappresentato l’argomentazione più utilizzata dai governanti per la reintroduzione della pena di morte in Paesi che osservavano una moratoria delle esecuzioni, anche da molti anni. Il rischio che temi scottanti come questi facciano passare sotto silenzio le gravissime violazioni dei diritti umani è non solo alto, ma attuale come non mai. Se pensavamo che fosse ormai palese la sconfitta universale del proibizionismo – persino Paesi famosi per applicare le pene più severe ai trafficanti di droga, come ad esempio la Malesia e l’Iran, dopo le tante pressioni della rete abolizionista, hanno recentemente rivisto la loro legislazione, che pur sempre prevede la pena di morte, ma in una chiave meno rigorosa – esiste una pericolosa controtendenza, rafforzata proprio da Trump, il quale non solo è tornato a parlare di pena di morte, ma lo ha fatto in una prospettiva più concreta, all’interno di una questione molto sensibile per il popolo statunitense, rappresentata da quella che chiamano “epidemia di oppiacei”. Infatti, proprio nei giorni scorsi, Trump ha annunciato di inserire la possibilità della pena capitale per i trafficanti di droga nel nuovo piano governativo per contrastare l’emergenza oppiacei e, durante un comizio elettorale in Pennsylvania, ha evocato la pena di morte per i “mercanti di morte”, lodando Singapore; che, forte dell’endorsement del Presidente americano, non ci ha pensato due volte a riprendere le esecuzioni.
Nonostante il plauso di Trump a Singapore per le politiche di tolleranza zero verso i trafficanti di droga, l’Onu, così come tutte le forze abolizioniste, continua a condannare la pena di morte applicata per reati di droga, ricordando che essa viola il diritto internazionale e in particolare l’articolo 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici. Inoltre, contrariamente alla dichiarazione di Trump, nella realtà, tutto il Sud-est asiatico e gli altri Paesi in prima linea nella lotta al narcotraffico hanno dovuto fare i conti con l’inefficacia provata della pena capitale: una pena che viene scontata spesso dall’anello più debole del mercato delle droghe, da coloro che sono più vulnerabili e che sono sfruttati dai narcotrafficanti, nonché dai consumatori e possessori di droghe leggere, come la cannabis.
Il preoccupante fenomeno di ‘andata e ritorno’ della pena di morte è purtroppo in questi anni più presente che mai e l’effetto domino è un dato di fatto. Ad oggi, sono 33 i Paesi che applicano la pena di morte per reati legati al narcotraffico. Ecco perché l’abolizione della pena di morte è una battaglia che non può fermarsi, neanche nei Paesi in cui essa è vinta, perché solo l’affermazione dei valori e delle idee abolizioniste può evitare che un giorno possa essere rimessa in discussione.