La pena di morte e i suoi limiti secondo il diritto internazionale

di Antonio Stango

Quando, il 10 dicembre del 1948, l’Assemblea Generale dell’ONU approvò la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, quasi tutti gli Stati membri di allora avevano la pena di morte nei propri codici penali. La Dichiarazione non ne fa quindi menzione, limitandosi a generiche considerazioni in qualche modo attinenti: all’articolo 3 afferma che ‘ogni individuo ha diritto alla vita’ e all’articolo 5 che ‘nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti’.

Restava quindi ai singoli Stati il compito di decidere se la pena di morte fosse da abolire, sia perché violasse tali statuizioni sia per altre ragioni. Da parte sua l’Italia, che poté aderire alle Nazioni Unite solo nel 1955, aveva appena inserito nella Costituzione repubblicana all’articolo 27 la non ammissibilità della pena di morte “se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra” (clausola che sarebbe poi stata eliminata con legge costituzionale nel 2007).

Il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, invece, pur non vietando la pena di morte, all’articolo 6 stabilisce che essa debba essere soggetta a importanti limitazioni. In primo luogo, “una sentenza capitale può essere pronunciata soltanto per i delitti più gravi, in conformità alle leggi vigenti al momento in cui il delitto fu commesso” (escludendo, quindi, deroghe al principio giuridico di irretroattività) e “può essere eseguita soltanto in virtù di una sentenza definitiva, resa da un tribunale competente”. Inoltre, “ogni condannato a morte ha il diritto di chiedere la grazia o la commutazione della pena” e “una sentenza capitale non può essere pronunciata per delitti commessi dai minori di 18 anni e non può essere eseguita nei confronti di donne incinte”.

Simili limitazioni sono state inserite nella Convenzione americana sui diritti umani del 1969, mentre la proibizione della pena di morte per i minori di 18 anni al momento del delitto è anche contenuta nella Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia del 1989.

Lo stesso articolo 6 del Patto internazionale reca due chiare indicazioni dell’aspettativa che la comunità internazionale nel suo insieme giunga all’abolizione. Infatti, il secondo comma inizia con la frase “Nei Paesi in cui la pena di morte non è stata abolita”, e il sesto ed ultimo comma stabilisce: “Nessuna disposizione di questo articolo può essere invocata per ritardare o impedire l’abolizione della pena di morte ad opera di uno Stato parte del presente Patto”.

Il Patto è stato finora ratificato da 168 Stati dei 193 attualmente membri delle Nazioni Unite. Se è vincolante per diritto convenzionale per gli Stati Parte, oggi, dopo cinquant’anni dall’approvazione all’Assemblea Generale dell’ONU e quaranta dall’entrata in vigore, è ormai considerato dalla dottrina come vincolante anche per tutti gli altri (fra i quali il più rilevante è l’Arabia Saudita) in forza del diritto internazionale consuetudinario. A mio avviso, è dunque strumentale e infondata qualsiasi pretesa di non applicazione delle sue norme – in particolare, invocando contesti regionali o altre forme di relativismo.

Specificamente diretto ad abolire la pena di morte – essendo però vincolante solo per gli Stati Parte – è il Secondo Protocollo opzionale al Patto, adottato dall’Assemblea Generale nel 1989, entrato in vigore nel 1991 e ratificato finora da 81 Stati. All’articolo 1 esso stabilisce che “Nessuna persona soggetta alla giurisdizione di uno Stato Parte al presente Protocollo sarà giustiziata”; al 2 che “Ciascuno Stato Parte adotterà tutti i provvedimenti necessari per abolire la pena di morte nell’ambito della sua giurisdizione”. Inoltre, il Protocollo non ammette alcuna riserva, salvo quella eventualmente “formulata all’atto della ratifica o dell’adesione e che prevede l’applicazione della pena di morte in tempo di guerra a seguito di una condanna per un delitto di natura militare di gravità estrema”.

Peraltro, a questo proposito è bene ricordare che nemmeno i delitti “di gravità estrema” quali genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità sono punibili con la morte dai Tribunali Penali Internazionali istituiti dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU nel 1993 (per i crimini commessi nella ex Jugoslavia) e nel 1994 (per quelli commessi in Ruanda) o dalla Corte Penale Internazionale, istituita con il Trattato adottato dalla Conferenza di Roma del 1998. Essi prevedono infatti come massima pena l’ergastolo; e, come recita l’articolo 77 dello Statuto di Roma, solo “se giustificato dall’estrema gravità del crimine e dalla situazione personale del condannato”. Inoltre, l’articolo 110 dello stesso Statuto stabilisce che anche l’ergastolo può essere rivisto dalla Corte dopo che il condannato abbia scontato 25 anni di detenzione, con ciò essendo escluso il cosiddetto ‘ergastolo ostativo’.

A livello regionale, sono le aree giuridiche del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea ad osservare precise normative che vietano la pena di morte. Dal 1989 l’abolizione è una condizione obbligatoria per ogni Stato candidato ad aderire al Consiglio d’Europa: non ne fa parte, quindi, la Bielorussia, che è il solo Paese europeo mantenitore sia de jure che de facto.

Il Sesto Protocollo alla CEDU (Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) è intitolato specificamente all’abolizione; adottato dal Consiglio d’Europa nel 1983 e ratificato finora da 46 dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa (con la sola eccezione della Russia), stabilisce all’articolo 1: “La pena di morte è abolita. Nessuno può essere condannato a tale pena né giustiziato”. Il suo articolo 2 lascia la possibilità di una deroga, nelle leggi di uno Stato, solo “per atti commessi in tempo di guerra o in caso di pericolo imminente di guerra”. Il Protocollo 13 alla medesima Convenzione europea, adottato nel 2002 e ad oggi ratificato da 44 Stati (non ancora da Armenia, Azerbaigian e Russia), prevede invece il bando della pena capitale in qualsiasi circostanza, compresi i crimini commessi in tempo di guerra o di minacce imminenti di guerra, escludendo qualsiasi deroga.

In forza dell’articolo 2 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, approvata nel dicembre 2000, l’abolizione è un requisito essenziale per l’adesione all’Unione, poiché il secondo comma afferma: “Nessuno può essere condannato alla pena di morte, né giustiziato”.

Infine, benché non possano considerarsi vincolanti come Trattati, occorre ricordare il grande valore politico delle Risoluzioni – ora biennali – dell’Assemblea Generale dell’ONU per una moratoria delle esecuzioni in vista della completa abolizione, il cui progetto fu tracciato fin dal 1993 da Nessuno tocchi Caino e fatto proprio successivamente dall’Italia, dall’Unione Europea e da un numero crescente di Stati di tutti i continenti.

Se la prima Risoluzione fu approvata nel dicembre 2007 con 104 voti a favore, 54 contrari e 29 astensioni, la quinta nel 2014 lo è stata con 117 voti a favore, 38 contrari e 34 astensioni. È ragionevole ritenere che tale tendenza possa trovare un nuovo riscontro alla prossima sessione dell’Assemblea Generale: per questo il 6° Congresso mondiale contro la pena di morte, che si svolge ad Oslo dal 21 al 23 giugno, dedica alla campagna per la moratoria universale uno dei suoi eventi principali.